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I nomi delle nostre uve, di svariate specie e tutte a
            frutto nero, sono giunti fino a noi da testi scritti e da
            memorie orali: la più comune era ‘1 Querciàt, dai lunghi
            grappoli ad acini grossi di un colorito bruno-chiaro che
            cresceva in prossimità dei querceti; la Berghemina era un
            vitigno importato dalla terra bergamasca; c’era poi al
            Pignól, a graspi brevi e dagli acini di colore scuro, pic-
            coli e stipati; la Ruséra, che cresceva in filari appoggiati
            ai gelsi, era così denominata per il suo rosso vivo; la
            Lambrösca era una vite selvatica i cui tralci si facevano
            salire sui rami alti degli olmi; della S-ciàa e della Viàciga
            si sa che erano uve primaticce, le prime con le quali si
            vinificava, mentre di altri vitigni ci è giunto solo il
            nome: l’Urmedèl, la Balsemìna, la Nigrùna, la Nigrisóla, la
            Furtana. Tra queste non mancarono alcune ottime uve,
            dalle quali i nostri avi, pur non essendo riconosciuti
            come grandi enologi, seppero in passato ricavare qual-
            che vino dignitoso, tanto che il senatore cremasco del
            Regno d’Italia, Luigi Griffini afferma di aver trovato
            bottiglie con l’etichetta «Cremasco di Madignano»,
            nientemeno che sulla tavola dell’Eliseo a Parigi.
                  L’uva nel nostro territorio fu da sempre conside-
            rata una coltivazione marginale, da economia dome-
            stica, né più né meno che come l’allevamento delle oche
            e dei maiali o la coltivazione dell’orto. La vite, poi, non
            pretendeva attenzioni particolari, e i nostri contadini
            potevano dedicarle i tempi liberi dalle faccende agri-
            cole: la potatura a fine gennaio, qualche colpo di vanga
            tra gennaio e marzo, con un preciso riferimento calen-





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