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            una sorsata di nettare. Anche i masagnèi, che dispone-
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            vano di filari ridotti o i ubligàc che potevano coltivare
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            ‘n tuchèl d’òrt, vinificavano modeste quantità di uva
            con metodi empirici e spesso con strumenti impropri e
            adattati alla circostanza.
                  Negli anni precedenti l’ultima guerra (1940-45),
            quasi tutti gli osti, producevano vino in proprio acqui-
            stando uve pregiate in Piemonte, nell’Oltrepò pavese e
            sul Piacentino. Dopo una previa spedizione per andà a
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            tratà l’öa, nel giorno stabilito, si formavano carovane
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            di carri e di barète che, attraversato il Po a Castelsan-
            giovanni o al ponte di Spessa, colmavano tine e naàse        49
            di grappoli di Barbera, Bosia, Freisa e Barbacarlo da ri-
            portare in paese pronti per la schisàda.    50
                  Al mosto si faceva festa. Gli osti ne vendevano una
            parte subito, come primizia, ed era bevuto ‘n da le scü-
            dèle o ‘n da le bucalìne, che ne esaltavano il colore e il
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            profumo. Le mogli degli osti, poi, ne sapevano ricavare
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            una sorta di gustosissimo budino, al süghèt, preparato
            con aggiunta di zucchero e cannella.
                  Il mosto veniva portato in cantina, se si trattava di
            osterie e di case padronali, oppure in qualche luogo fre-



            44  Piccoli agricoltori che gestivano in proprio un’azienda agricola.
            45  Lavoratori dipendenti di un fittabile.
            46  Un piccolo appezzamento di orto.
            47  Fare il contratto per l’acquisto dell’uva.
            48  Carri agricoli a due ruote e sponde alte.
            49  Tini e recipienti quadrangolari di legno.
            50  Spremitura.
            51  Scodelle e piccoli boccali.
            52  Dolce fatto con mosto, zucchero e cannella.



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