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Seguiva un intervento che ha segnato la nostra tra-
            dizione cremasca: alle vinacce ormai dilavate, spesso
            gratuitamente concesse dagli osti, alcuni privati ag-
            giungevano acqua, anche zuccherata e, dopo sei o sette
            giorni, torchiavano di nuovo per ottenere un vinello ro-
            sato e asprigno, di bassissima gradazione, dissetante e
            diuretico, che aveva non pochi buongustai soprattutto
            tra i ceti più popolari e che era denominato ‘l pisarèlo,    61
            il parente povero del vino di prima pigiatura, un em-
            blema della semplicità della vita contadina. L’opera-
            zione di produzione di questo acquerello poteva
            protrarsi a lungo, fino a che le vinacce rilasciavano un
            liquido che avesse ancora qualche sentore di vino. In
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            gergo si diceva: Sö acqua e zó i, fina a San Martì! Servito
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            in tavola nelle basgète e attinto col casül, per tutto il
            periodo autunnale questo elixir, spesso abbinato con i
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            tètui, altro frutto di stagione, poteva regalare qualche
            tenue illusione alcoolica, portare un po’ di buonumore
            e ripagare dalle fatiche della povertà in misura più ab-
            bondante rispetto ad altre risorse usate con maggior
            parsimonia. I era … i dé dal pisarèlo!  66
                  Intanto il mosto era conservato in cantina fino al
            giorno benedetto nel quale si procedeva a ‘mbutiglià         67



            61  Termine popolare per indicare il vinello chiaro e leggero ottenuto da successive
              spremiture di vinacce con aggiunte di acqua.
            62  “Aggiungi acqua e cavane vino, fino a San Martino”.
            63  Piccole zuppiere.
            64  Mestolo.
            65  Castagne lessate.
            66  Erano i giorno del pisarèlo.
            67  Mettere in bottiglia.



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